Onorevoli Colleghi! - Il Corpo degli agenti di custodia ha avuto un ordinamento civile fino al 1945, per effetto del regolamento di cui al regio decreto 30 dicembre 1937, n. 2584.
      Nel 1945, per effetto del decreto legislativo luogotenenziale 21 agosto 1945, n. 508, poi integrato con il decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 5 maggio 1947, n. 381, l'ordinamento fu militarizzato e l'organismo trovò collocazione tra le Forze armate e le Forze di polizia.
      Dal 1991, per effetto della legge 15 dicembre 1990, n. 395, l'ordinamento è stato ancora demilitarizzato in funzione del nuovo organismo, appunto la polizia penitenziaria. Nella presente relazione non verrà dato rilievo alla organizzazione antecedente al 1945 (anche se qualche significativo richiamo si renderà indispensabile, nonostante gli oltre sessanta anni trascorsi), apparendo preminente, ancorché per sintesi, l'evoluzione delle vicende giuridiche e sostanziali dell'organismo, sotto i profili organizzativi, gerarchici, strutturali, tecnici ed operativi dopo il 1945 e dopo il 1990, vale a dire dall'origine dei due ordinamenti, militare e civile, rispettivamente, per verificare, in comparazione, la plausibilità e la portata dello sforzo innovativo.
      Dunque il Corpo degli agenti di custodia, un Corpo militare, aveva la seguente configurazione:

          1) era inserito nella Direzione generale per gli istituti di prevenzione e pena del Ministero di grazia e giustizia;

          2) era amministrato da un ufficio centrale di tale Direzione generale entro cui era collocato il comandante del Corpo titolare di un ufficio di comando, entrambi di valenza meramente nominale (residuale la sostanza);

 

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          3) a livello periferico regionale, l'organismo si avvaleva di ufficiali trasformati, pomposamente, in comandanti di comandi regionali di cui non v'era traccia di fonte normativa;

          4) a livello periferico regionale, per effetto di competenze legislativamente attribuite, l'organismo supponeva la figura dell'ispettore distrettuale, provvista di una certa superiorità funzionale, non anche gerarchica;

          5) a livello periferico locale, l'organismo era distinto nei reparti degli istituti penitenziari, posti al comando, nominale, di un maresciallo e, di fatto, del direttore dell'istituto, capo assoluto del personale militare in sede, riconosciuto, altresì, unico titolare del potere di richiesta di procedimento penale per reati militari, in quanto considerato comandante di Corpo;

          6) disponeva di scuole di addestramento e di formazione, di un servizio di trasporto automobilistico militare, di un servizio navale militare e di alcuni poligoni di tiro;

          7) era equipaggiato ed armato secondo i livelli, quasi sempre minimi, delle previsioni relative alle Forze di polizia.

          Ex lege, il Corpo dipendeva gerarchicamente dal Direttore generale, dal Comandante del Corpo, dagli altri superiori, appunto, gerarchici e, malgrado il silenzio normativo, per tacita tolleranza di un potere di autoinvestitura, anche dal Direttore dell'Ufficio centrale preposto all'amministrazione complessiva del personale, il quale esercitava ogni pertinente potere di superiorità e di comando senza limitazioni di sorta. Fatta, pertanto, salva la figura del Direttore generale, in quanto capo dell'Amministrazione e, quindi, capo del personale tutto, le altre figure appena individuate, variamente apicali, pur destinate, di massima, al governo amministrativo e di intervento degli agenti di custodia, secondo la legge, nella lettura e nella conseguente interpretazione, adattate alle circostanze, si appropriavano di investiture e di discendenti poteri assai controversi, a volte contraddittori.
      Ed infatti:

          a) il Comandante del Corpo e gli altri ufficiali, pur privi di codificati poteri di intervento autonomo, fatta eccezione di quelli di principio ad essi riconosciuti dalla legge istitutiva (mai oggetto di regolamento, ancorché di obbligo) potevano esercitare il sancito potere gerarchico e, per conseguenza, pretendere comportamenti di subordinazione senza limitazioni personali e territoriali ma privi, tuttavia, di retroterra sostanziale;

          b) l'ispettore distrettuale, pur essendo normalmente incaricato della supervisione degli istituti, a rigore, nessuna pretesa gerarchica poteva avanzare nei confronti del personale militare perché sprovvisto di titolarità, tant'è che a questa figura non era dovuto il saluto militare; anche ad esso, tuttavia, era consentito di operare quale figura gerarchica;

          c) il direttore dell'istituto penitenziario, di contro, nonostante l'assolutezza della sua superiorità, poteva godere e far esercizio dei diritti e dei poteri riconosciutigli soltanto nell'ambito del proprio carcere e nei confronti del proprio personale.

      Chiaro è che queste figure, nel loro complesso, a seconda del tacito o espresso consenso, indirizzavano e condizionavano l'andamento amministrativo e operativo del Corpo. Ciò posto, dalla non numerosa legislazione ma, soprattutto, dal tipo di attuazione che ad essa è stata data per oltre mezzo secolo, all'esegeta del tempo, interessato ad una indagine approfondita, motivata, comparata, in breve serena ed obiettiva, finalizzata al sapere, sarebbe venuta in luce una insospettabile situazione giuridica e tecnica cristallizzata nella precarietà, nella confusione, nella condiscendenza alla approssimazione e nell'indifferenza.
      In un siffatto stato di cose era, pertanto, inevitabile che venissero a insorgere fermenti riformatori, vieppiù insistiti, suscitati e alimentati da uomini in condizioni professionali a dir poco disagiate, pressoché

 

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abbandonati a se stessi, sottoposti a turni di lavoro massacranti, mal pagati, senza tutela, psicologicamente provati dal quotidiano rischio dell'incolumità personale - segnatamente nei tormentati anni del terrorismo - disillusi e sfiduciati. Ecco, allora, prendere connotazione la spinta riformista diretta ad ottenere, al fine, il riconoscimento di sacrosanti princìpi e l'attuazione di misure concrete atte a superare la pericolosa e non più sostenibile situazione generale incredibilmente difesa da molti fino al limite della possibilità estrema.
      Nell'essenziale, quella spinta era, allora, finalizzata:

          1) al cambiamento di status, non apparendo quello militare ancora compatibile con la funzione penitenziaria divenuta non più meramente custodiale;

          2) all'adeguamento delle piante organiche;

          3) al mantenimento della subordinazione funzionale nei confronti del personale direttivo e dirigente dell'Amministrazione e della subordinazione gerarchica nei confronti del personale delle varie qualifiche del Corpo;

          4) all'acquisizione di una forte e profonda qualificazione professionale, incentrata su una solida cultura di base, giuridica e tecnica;

          5) al formale inserimento del personale nei procedimenti e nelle attività del trattamento penitenziario;

          6) alla chiara determinazione dell'orario di lavoro e all'equa distribuzione dei carichi;

          7) alla modernizzazione di una struttura amministrativa complessivamente obsoleta;

          8) all'efficace rappresentatività;

          9) alla reale equiparazione alle altre Forze di polizia con un proprio comando distinto dalle direzioni amministrative delle varie sedi dell'Amministrazione penitenziaria;

          10) al potenziamento dell'equipaggiamento, dei mezzi e degli strumenti;

          11) alla vivibilità dell'ambiente professionale.

      Questi i princìpi, queste le aspettative che, invero, la legge di riforma n. 395 del 1990 ha integralmente recepito e tradotto in norme.
      Nel decennio della riforma si è continuato a procrastinare tra palleggiamenti di inerzia e resistenze di varia intensità sull'alibi inconsistente della riflessione. Se all'inizio di questo arco non breve di tempo si fosse dato corso a qualche iniziativa, probabilmente oggi sarebbe disponibile una classe di tale fatta, sufficientemente sperimentata, forse necessitante di qualche aggiustamento, ma non certo ancora da inventare. Perché è chiaro che una categoria del genere non si improvvisa per effetto di un bando o di una specializzazione da corso. V'è stato, invece, il sotterfugio del tentativo di insabbiamento delle carenze - molti i complici - dietro veli purtroppo abbastanza trasparenti che non hanno protetto dalla curiosità.
      L'ordinamento del 1990 ha probabilmente illuso i presunti nuovi vertici naturali sull'attribuzione di poteri, di spazi, di prestigio: in effetti, personalizzando, quelle qualifiche innovate nient'altro si sono rivelate se non le omologhe di quelle riformate, mutata la denominazione. Ricacciatene decisamente le aspirazioni e le aspettative ad emergere, esse sono state disinvoltamente ricollocate nell'abituale limbo della sottomissione, appena edulcorata dall'enfasi del dettato normativo assai propagandato, mediante tre formidabili mezzi di persuasione:

          1) quello dell'equiparazione agli altri, ininfluente la valutazione preventiva del danno derivante dalla pretermissione della diversità di stato, di funzione, di organizzazione, d'ambiente e d'esercizio altrui e, quindi, propria;

          2) quello della carriera, per prassi dissociata dalla concreta esigenza, tacita blandizia

 

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volta all'avanzamento non negato su una scala gerarchica di ben sei gradini;

          3) quello della progressione stipendiale, secondo la carriera e secondo il tempo della carriera.

      Una strategia in fin dei conti comoda soltanto per l'assenso generale, essendo a dir poco perversa a causa della malcurata miopia sulla prevalenza della produttività. Il difetto, a ben vedere, risale all'origine; prima del 1945, nel 1937, anno della promulgazione dell'archiviato regolamento, erano previste in tabella otto qualifiche. Dal 1945, militarizzato l'organismo, i gradi gerarchici figli di quelle qualifiche divennero sette. Dal 1990, anno della riforma, le qualifiche sono divenute dieci.
      L'analisi diviene significativa se approfondita con la chiosa sulle funzioni attribuite di norma a ciascuna qualifica (e, prima, a ciascun grado). Ebbene, l'effetto conseguenziale è che alla fascia degli agenti sono demandati compiti di mera esecuzione mentre alle fasce sovrastanti, nonostante la formula, sono demandati sostanzialmente compiti di coordinamento, non potendosi riconoscere, con seria adesione, l'attribuzione di alcuna facoltà di autentico esercizio del comando, secondo il concetto. Semmai tutt'altro. Così nel 1937, così nel 1945, così nel 1990 e stando al vigente regolamento, così nel 1999. Dal punto di vista dell'organico una comparazione numerica, inoltre, fa risultare che le fasce sovraordinate ritenute adeguate nell'8 per cento rispetto a quella sottostante nel 1937 vennero potenziate al 14,5 per cento nel 1971, al 16,5 per cento nel 1975, al 18 per cento nel 1981 e nel 1990, come a significare una marcata volontà di corrispondenza a un onere di servizio vieppiù pressante con il trascorrere del tempo. In effetti, tale progressione sarebbe stata perfettamente plausibile (magari al confronto con altri organismi) se la prova pratica del contesto operativo non l'avesse ridimensionata a una sorta di benevola equiparazione attentamente aperta a certi sbocchi di carriera. Fatto salvo un diverso indirizzo, peraltro nemmeno adombrato. Insomma, una fascia che per principio incontestabile avrebbe dovuto ricevere il riconoscimento di capacità verticali, per dettato normativo - scrupolosamente attuato - ottenne e mantiene quello delle modeste attribuzioni di coordinamento e di un esemplare concetto, non meglio chiarito.
      Con la legge delega 28 luglio 1999, n. 266, è stato introdotto il ruolo direttivo del Corpo, propagandato quale insigne e meritoria conquista oltreché quale segnale di forte sensibilità verso le aspettative che poco dopo sono svanite con il decreto legislativo 21 maggio 2000, n. 146 (emanato in attuazione della citata legge delega), che ha relegato i funzionari a posizioni di pura sottomissione ai direttori degli istituti, con subordinazione gerarchica e funzionale e con funzioni di comandante che, per altro, già svolgevano gli ispettori. Altra incompiuta modifica del Corpo, che potrà risorgere solo con le modifiche contenute nella presente proposta di legge, risolvendo annosi problemi, mortificazioni, delusioni e soprattutto quell'amarezza e demotivazione che da anni vive tra gli appartenenti al Corpo della polizia penitenziaria. La presente proposta di legge prevede una direzione generale del Corpo:

          1) un capo che sia un dirigente del Corpo di polizia penitenziaria, alla stregua di quanto in essere per tutte le Forze di polizia;

          2) un allineamento, effettivo ed efficace, tenuto conto delle sperequazioni subite e della storia del Corpo e delle funzioni di comando espletate, agli ordinamenti dei ruoli del personale della Polizia di Stato;

          3) un ampliamento di compiti istituzionali del Corpo, con la previsione del controllo dei detenuti in esecuzione penale esterna e con il presidio delle strutture giudiziarie, che consentirebbe il recupero di centinaia di poliziotti, carabinieri e finanzieri da impiegare per l'attività di contrasto alla criminalità;